Amici, siamo arrivati alla conclusione della seconda parte che la domanda a proposito del destino non può formularsi così: “Agire o non agire? Attivo o non attivo?”, ma soltanto come segue: “Qual è il fine della nostra vita? Siamo noi stessi (l’io) il fine, o è il ritorno al fiume della creazione divina?”.
Dopo quanto analizzato nei capitoli precedenti diventa allora chiaro che il non fare al quale allude Lao Tsè significa il non fare più, il non essere più attivo dell’io e del suo piccolo mondo. E’ questo il ritorno al fine originale. Anche Virata conosce il ritorno, ma non è il ritorno verso l’originale e il non io, ma solo il ritorno a un’altra situazione terrestre. E’ di nuovo un ideale, un essere attivi, senza scopo, senza scopo preciso. E’ un agire senza volontà propria, unicamente mosso dalle circostanze esteriori. E’ di nuovo il piccolo mondo con, al centro, Virata, guardiano dei cani.
Anche noi, ad ogni istante della nostra vita, ci creiamo un Piccolo mondo, una sfera d’influenza al centro della quale ci troviamo. La nostra vita è simile a quella di Virata; ad ogni istante le nostre idee e i nostri ideali ci forzano ad agire, a fare, il che causa le nostre prove. Scopriamo che ciò è valevole anche per il fare o il non fare più insignificante. “Quando respiro, l’aria muore”, disse un giorno un saggio.
Perché è così? Perché noi non viviamo più in armonia con la creazione divina, perché ad ogni battito del cuore utilizziamo l’energia creatrice e la forza divina per una vita egoistica ed egocentrica, per la creazione dei nostri piccoli mondi con i loro ideali, i loro valori ed obbiettivi. Cosicché noi creiamo continuamente con tutto l’arsenale del nostro essere-ego, con tutti i nostri pensieri, con tutti i nostri desideri, con tutti i nostri sentimenti, con tutti i nostri atti.
Creiamo i nostri mondi secondo i nostri criteri. Gli altri non hanno che da prendervi posto e comportarsi secondo il nostro beneplacito. Altrimenti ci vendichiamo e, nel nostro mondo, svolgiamo il ruolo del destino.
In piccolo o in grande, il nostro mondo si presenta come una copia, una continua imitazione dell’attività creatrice divina. Ma, poiché il nostro comportamento non è in armonia con il piano della creazione divina, noi siamo continuamente corretti. Il destino distruttore si abbatte continuamente sui nostri piccoli mondi.
Dobbiamo dunque abbandonare questa creazione, questo lavoro di imitazione? Potremmo vivere senza il nostro piccolo mondo o il nostro grande mondo? Se approfondiamo questo, scopriamo che noi non possiamo, in fondo, esistere senza il nostro piccolo mondo, che non siamo niente senza di esso. E’ solo al centro del nostro piccolo mondo che significhiamo qualcosa, che siamo qualcosa.
Fuori di esso, non contiamo nulla. Insomma noi siamo e restiamo una creazione della passione di autoconservazione e pecchiamo continuamente contro il fine della creazione.
Se potessimo comprendere questo, non vorremmo più peccare contro il fine della creazione, desidereremmo il ritorno. Vorremmo agire meno, contare meno, vivere più semplicemente, ritirarci, allontanarci dalle ordinarie convenzioni della vita. Ma ciò non è che il ritorno di Virata, il ritorno per dirigerci verso un altro mondo più piccolo, provvisto di un’altra filosofia, dalla quale attendiamo una migliore protezione dai colpi del destino.
Questo ritorno non è un ritorno al piano della creazione divina. Noi dobbiamo prima vincere e abbandonare l’esistenza dell’uomo illusorio nei nostri mondi illusori. E’ questo l’agire permesso nel senso inteso dalla Bhagavad Gita. E’ questo l’agire nel non agire di Lao Tsè. E’ in questo non fare che nasce l’uomo vero, l’uomo del piano di creazione divino. Si tratta dell’uomo che non usa più le forze creatrici divine per se stesso e per le sue creazioni personali, ma solamente secondo l’intenzione del piano di creazione.
Questo uomo vero non potrà tuttavia rivelarsi da un giorno all’altro, né l’uomo-ego potrà essere abbandonato in un giorno, poiché deve ancora assolvere un compito: la rinascita dell’ “Altro”. Sarà il compito della sua vita: volgersi verso un nuovo fare, in un non fare più e rendere così possibile la rinascita. Nella misura in cui la necessaria coscienza cresce in lui, egli potrà realizzare questo con atti nuovi.
Tuttavia, per quanto riguarda il resto, egli continuerà ad agire creando un debito. Deve rendere inesorabilmente a Cesare quello che è di Cesare. Dovrà pagare il suo debito fino all’ultimo centesimo.
L’uomo che intraprende il ritorno si trova dunque a confronto con un duplice agire. Da un lato, egli si trova nell’agire permesso, l’agire che non crea debiti, nel quale abbandona, nella misura in cui ne è cosciente, il suo obbiettivo personale, il suo piccolo mondo, e tutto se stesso – con il suo non fare più crea così l’uomo vero – dall’altro lato, egli si trova nel fare che genera il debito e la caduta e non ne è che parzialmente cosciente.
Possiamo dunque comprendere le parole della Bhagavad Gita: “Che cos’è agire? E che cos’è non agire? Il saggio stesso vi si perde. Perciò vi spiegherò questo atto che, ben compreso, vi libererà dal male. Voi dovete distinguere bene l’agire, l’agire che non è permesso, dal non agire. Pieno di mistero è il cammino degli atti”. Possiamo noi comprendere il fare e il non fare autentici e trovare così l’unico cammino di ritorno!