Cari amici, alla fine della prima parte di questo argomento che stiamo trattando insieme, ci siamo lasciati con le seguenti domande:
C’è dunque un atto permesso e un atto che non è permesso? C’è un atto che crea karma e un agire che è senza conseguenze? Cosa è permesso nella vita e cosa non lo è?
Lo scrittore Stephan Zweig tenta un approccio della soluzione del problema “Fare o non fare” in un breve racconto che intitolò “Die Augen des ewigen Bruders”. Della sua opera diceva, non senza un certo rispetto, che era una leggenda e non un racconto; l’ha d’altronde scritta con uno stile e un ritmo che ricordano la scrittura sacra. Lo riassumiamo in poche righe.
L’eroe principale è Virata, un nobiluomo. Chiamato dal re a difendere il regno, egli uccise, senza saperlo, durante un combattimento notturno, il proprio fratello. Da allora gli occhi morti di quest’ultimo gli bruciano l’anima e gli pongono senza tregua il dilemma: fare o non fare? Egli abbandona gli affari della guerra e non desidera più altro che vivere da uomo giusto. Nominato giudice supremo dal re, non pronuncia mai una sentenza di morte; ma deve, ciò nonostante, constatare che anche l’atto più giusto ha delle conseguenze disastrose e può distruggere la vita degli altri.
Abbandona allora anche l’atto giusto e non vive più che per la famiglia. Un giorno vede uno dei suoi figli punire uno schiavo per una mancanza derisoria. Gli occhi spalancati dalla paura dell’uomo gli ricordano gli occhi del fratello. Comprendendo che la libertà è il bene ultimo, lo sguardo del fratello eterno, egli rende la libertà a tutti i suoi schiavi. Borbottando, i figli gli chiedono chi lavorerà allora i campi e gli ricordano che non può vivere senza il sudore degli altri… Lo stesso tappeto sul quale dorme è impregnato del sudore degli altri; possedere qualcosa significa già avere potere sugli altri e implica di conseguenza la loro mancanza di libertà.
A seguito di ciò, Virata divide tutti i suoi beni tra i suoi figli avidi e abbandona anche questo modo di vita. Ricerca la solitudine delle foreste e non vive d’altro che dell’opera delle sue mani. Familiarizzato con gli animali della foresta, vive parecchi anni in mezzo a loro, riflettendo e meditando.
Un giorno un cacciatore lo scopre e sparge la voce dell’esistenza di un anacoreta, d’un uomo pio. Virata diventa allora un esempio; altri, a loro volta, si ritirano dalla vita.
Ma nemmeno questa vita è immune dai debiti. Un giorno Virata è obbligato a chiedere aiuto per un suo compagno; una donna lo fissa dalla sua capanna con sguardo torvo. Di nuovo egli vede gli occhi di suo fratello morto. Essa gli rinfaccia il suo operare. Non è a causa sua e del suo esempio che una famiglia ha perduto colui che guadagnava il pane? Questa famiglia è ora ridotta in miseria e i bambini muoiono di fame.
Profondamente afflitto, Virata lascia la vita solitaria. Ed ecco la sua esperienza: su questa terra, anche non agendo, ci si rende colpevoli. Il cerchio è ora chiuso.
Allora ritorna alla vita. Non cerca più di essere libero. Non vuole più essere inutile ed egoista. Vuole ora porsi al centro dell’azione, senza chiedersi quali ne sono le cause o quali gli effetti.
Non vuole più altro che servire il suo paese e pagare così il suo debito. E chiede al re: “Liberami dalla mia volontà, perché è confusione, mentre il servizio è saggezza. Chi, tuttavia, per saggezza, vuole evitare il nemico e pensa di poterlo fare ricade nella tentazione e nel debito”.
Ma il re non lo comprende. Non comprende che Virata voglia liberarsi chiedendo di servire. Non comprende che il maestro sia, per Dio, inferiore al servitore. Nero dalla collera e ferito nel suo orgoglio, lo nomina guardiano di cani della corte.
Così Virata, uno dei notabili del paese, diventa uno dei più umili. I suoi figli si vergognano di lui, i sacerdoti lo evitano come un indegno. Solo il popolo si stupisce ancora per qualche tempo; ma poi lo dimentica, come lo dimenticano i cani alla sua morte.
Questo racconto è veramente l’immagine della nostra vita. Osservando le diverse fasi della vita di Virata, scopriamo due aspetti. Ogni fase di vita è creata dalla sua propria volontà e ogni parte del destino è generata dal suo piccolo mondo e dalla sua volontà. Si tratta sempre di un mondo di cui lui stesso è il centro. Per quanto faccia del suo meglio per trarre lezioni dalle sue esperienze, ognuno dei suoi mondi è turbato da una prova, anche quando prende le sue distanze rispetto all’azione e alla vita attiva.
Questo racconto ci dimostra che la domanda a proposito del destino non può formularsi così: “Agire o non agire? Attivo o non attivo?”, ma soltanto come segue: “Qual è il fine della nostra vita? Siamo noi stessi (l’io) il fine, o è il ritorno al fiume della creazione divina?”